CINQUE PEZZI " FACILI"
affior s'immerge
Laura Vecere
Cronaca di un incontro.
La funzione dell’estensore di una cronaca è quella di narrare i fatti nell’ordine in cui sono accaduti. Detto ciò, l’intoppo arriva
immediatamente dopo. Tutto sta ad intendersi su cosa sia un fatto,vale a dire in cosa consista la sua datità. Per fatto s’intende un oggetto o
un evento che ha una misurabilità nel tempo e nello spazio: localizzabile. Ma cosa accade se, per loro natura, i cosiddetti fatti in esame
sfuggono questo quadro interpretativo e si sottraggono alle leggi della cronologia e alle possibilità descrittive del cronista? Si può
continuare ancora a parlare di cronaca e di fatti correlati?
Nel dubbio che i fatti siano veramente tali, i punti elencati qui di seguito sono ordinati, per comodità di stesura, in successione di emergenza,
oppure per consonanza, ma non di certo in ordine cronologico. I cosiddetti “fatti” sono, per così dire, quadri-dimensionali e, come tali,
cercheremo di trattarli.
C’era stato quel parlare intorno alle acque, un lento sedimentare, nel corso del tempo, di letture sulla memoria, che ora venivano a
costruire una piccola pila di fascicoli sovrapposti ai piedi del tavolo di lavoro. In quei testi si raccoglievano le analisi, le descrizioni, i vissuti
intorno a un tipo di memoria che, come le varianti di un mito, erano giunte attraverso i filtri di una catena di autori (Proust, Baudelaire,
Benjamin, Freud, Warburg, Eliade, Florenskij, Agamben, Calasso, Morin, Fabro...), in cui emergeva una convergenza di pensieri verso una medesima
figura chiamata con nomi diversi, ovvero la memoria: memoria/impronta, memoria/profonda, memoria/anteriore,
memoria/involontaria,memoria/tradizione, pertanto distinte da altri tipi di memoria quali il personalistico ricordo o quella utilitaristica per il
disbrigo del vivere quotidiano. Le figure in cui si presenta sono mutevoli, affini al cangiantismo dell’acqua e dunque allo stesso tempo sono
ninfa, serpente, dragone, sibilla, impronta, fantasma, stirpe, iconografia,…descrivono un divenire costantemente in atto che tuttavia non si
disgrega o non dimentica se stesso.
In modo molto schematico si potrebbe dire che nel Mondo Classico il permanere era soverchiante rispetto al divenire, mentre nella
Modernità è il divenire ad essere soverchiante rispetto al permanere. Ciò determina un atteggiamento diffuso di ricusa, motivato forse, ma
fuorviante, dell’iconografia, una delle figure della permanenza mnemonica, il cui senso è molto difficile da cogliere, riconoscere e collocare
nella contemporaneità, se non impoverendone la profondità ad un’imitazione di maniera. L’iconografia è da ripensare in termini di una sorta
di energia (la vita stessa) affiorante alla superficie della forma/immagine. «Io sono una forza del Passato/ solo nella tradizione è il mio
amore/vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare/(…)» faceva recitare Pasolini ad Orson Welles nel film La ricotta, ascoltato dall’ottuso
intervistatore in impermeabile bianco. Una forza che viene da lontano e, proprio per questo, distinta dalla forma che è invece contemporanea
al formatore.[1] Come allora può manifestarsi oggi l’iconografia? Qual è il suo corpo glorioso, non più riconoscibile di primo acchito e che
tuttavia ha la forza di attraversare il tempo?
Non è un caso che, proprio a partire dalla fine dell’Ottocento, la letteratura filosofica sulla memoria si addensi di contributi e di analisi,
strettamente intrecciate agli studi della vita delle metropoli e alle rotture linguistiche dell’avanguardia.
La metropoli e la sua parente povera, la Conurbazione, non hanno più gli strumenti collettivi per assicurarsi il ritorno alle fonti, ovvero la
festa e la liturgia [2], sostituite dalla moderna società mediatica dello spettacolo, negazione dell’esperienza. Come aveva a suo tempo
sottolineato Benjamin «Nel sostituirsi dell’informazione alla più antica relazione, e della «sensazione» all’informazione, si rispecchia l’atrofia
progressiva dell’esperienza. Tutte queste forme, -proseguiva- si distaccano, a loro volta, dalla narrazione; che è una delle forme più antiche di
comunicazione. Essa non mira, come l’informazione, a comunicare il puro in sé dell’accaduto, ma lo cala nella vita del relatore, per farne
dono agli ascoltatori come esperienza. Così vi resta il segno del narratore, come quello della mano del vasaio sulla coppa d’argilla. » [3]
Sheila esisteva già. Nel video, il suo parlare è interrotto da schermate buie, crepe allarmanti che preannunciano un vuoto già quasi totale. Il
suo unico ricordo è fatto d’acqua. Un tuffo nel Tamigi, “I jumped in the river” (2002). Affetta da sindrome di Alzheimer, Sheila parla il suo
ricordo in forma di monologo. Ma il ricordo, cavo ed isolato, è stato “tradotto” e rivitalizzato in un dialogo dalla presenza di un
interlocutore, ThomasDS che, assunto come proprio il frammento, lo trasforma in narrazione compiuta; utilizzando la tecnologia del video.
L’episodio bizzarro è stato “musicato” come una partitura. Sono stati aggiunti suoni, foto tratte dalla storia della stessa Sheila, e immagini
allagate dall’acqua, sorta di interpolazioni, di filtri che, invece di attenuare rendono più nitida e chiara una voce che giunge nella forma di
eco, un’ultima vibrazione prima del silenzio. La storia di Sheila non è più il frammento di una cronaca, registrata in una casa di riposo
londinese, ma è luogo e narrazione. Un’affettuosa e attenta precisione ha trasformato l’episodio in un racconto a più livelli trasponendo il
senso di perdita in poesia notturna. Sullo schermo le frasi pronunciate da Sheila appaiono, scorrono, pulsano, solcano la profondità
perduta, descrivono i confini di un brandello di vita ancora palpitante. Un’ isola galleggiante di memoria di quattro minuti.
Tra lo schermo e la lastra, si era stabilito un certo grado d’intercambiabilità. I due mezzi, alternati nell’uso, nel corso del tempo si erano
sovrapposti e, quasi per innesto, fusi insieme concettualmente nella ricerca artistica di Stefano Tondo, tanto da apparire una costante. Sebbene
i due campi d’indagine, lo schermo e la lastra, impongano limiti fisici e orientamenti visivi concettualmente differenti, non fosse altro perché
l’uno è transitivo alla luce e alla visione (l’uso del vetro specchiante o della retroproiezione), mentre l’altra è intransitiva (la lastra di ottone
lucidata che vibra appoggiata al muro), essi condividono tuttavia la condizione di superficie bidimensionale. Le prime lastre rettangolari in
ottone erano la testimonianza di una forza pre-iconica dell’icona che agiva quale spinta primordiale e senza forma, vibrazione interna alla
lastra. Gli schermi, invece, accoglievano la proiezione delle immagini del multiforme cangiantismo dell’io senziente e personale. Ciò non ha
impedito che, all’occorrenza, alla Quadriennale di Roma (2008) la lastra divenisse schermo, soglia, specchio d’acqua, luogo della prima
apparizione in superficie dell’immagine interna primordiale, poi ritrovata più nitida sulla parete alle spalle dell’osservatore. È in questa doppia
direzione in cui s’intrecciano l’apparenza che si proietta e l’energia pre-formale che affiora dal fondo alla superficie, che si possono leggere
Orior I (Verbania 2005) e Orior II, ora in mostra. L’immagine è sostituita dal tendere alla forma della lastra. Le sagome di ottone,
arrotondante e morbide dai bordi flessibili e tremuli, formano una costellazione a parete, che vibra risuonando, sorta di Sagra della
Primavera visiva.
Le aveva immaginate come pitture nell’aria: cinque teli di seta distribuiti ad intervalli e strutturanti lo spazio circostante, con una forza
inversamente proporzionale alla loro levità. I teli che compongono Osmosis di Tohko Senda sono pitture bi-laterali. Vale a dire che entrambe
le facce sono protagoniste in un dipinto che non ha più come suo unico referente il rapporto tela e parete. Un passaggio affrontato in modi
diversi, nel secolo appena scorso. La scelta delle superfici di seta, pensate per e nello spazio, è dovuta alla loro transitività, il che porta come
conseguenza nella direzione di una visione sdoppiata della stessa in recto e verso. Il verso in questione, fa la sua comparsa quale sorta di
gemello fantasma, inconscio, del recto e suo alter ego che, una volta portato allo scoperto e messo in gioco insieme al versante principale
suscita un senso di inquietudine come tutte le forme gemellari. Il verso non si rivela mediante il dispositivo virtuale di uno specchio, ma è
fattuale, ottenuto per contatto, per osmosi. Trascende così il principio di simmetria complanare riproposta in figura omologa inversa. È come
se in tal modo, la pittura volesse appropriarsi di un interno e di un esterno della superficie e in ciò avvicinarsi al gioco positivo/negativo che
pertiene alla costruzione della scultura, indagato però nel punto zero del piano di superfice. Tohko Senda parte da piccoli eventi naturali
non più grandi di qualche centimetro, embrioni o crisalidi abbandonate dalla vita, vegetali quasi in letargo che non sono più o non sono
ancora, colti su una soglia. La sua pittura è il reportage, la mappa, di questo scavo nella materia-colore della cosa.
“Ogni rappresentazione cartografica (…) nasce (…) più o meno direttamente, da un’esperienza, da un percorso- lungo breve, eccezionale o
abituale - effettuato da qualcuno.” [4]La prima esperienza esplorativa è quella che ha luogo nell’infanzia quando si va alla scoperta di quel
territorio, familiare e allo stesso tempo mitico, del proprio ambiente di vita: la casa. Si parte attaccati alla terra o al suo sostituto, il pavimento
di cui si delimitano i primi contorni. È un’esperienza sia esteriore che interiore. La prima mappa, come tutte quelle che seguiranno, rappresenta
un permanere e un viaggiare. Un permanere, dato dalla struttura che ne fissa i confini, gli orientamenti, i luoghi sensibili, le barriere emergenti,
i sentieri percorribili e, un viaggiare, che nasce in primo luogo come evocazione fantastica e mentale prima ancora che reale. A questa
immagine territoriale sono riconducibili i lavori a pavimento messi in essere da Gabriele Manganiello: dalle prime mappe, ovvero i giochi
strategici di guerra, cui fanno seguito le proiezione anamorfiche realizzate in erba sintetica raffiguranti soldati in assetto mimetico, fino ai
“tappeti” presenti in mostra. Tre diverse tipologie di mappe tappeto, e si sa che il tappeto è una rappresentazione labirintica, e che il labirinto, nato
come danza (contatto con la terra), porta in quel luogo mitico lontano-vicino che è il proprio centro. L’allusione al tema è presente in una
delle sagome a terra, mentre gli altri elementi, realizzati in materiali plastici e in cartone argentato, appaiono quali sagome fluttuanti simili a
resti di qualche fantastico animale preistorico liquefatto o a pozze d’acqua lucenti. In tutte le “ricognizioni a pavimento” di Manganiello il
debito che permane non è verso la cultura del Movimento Moderno, ma verso un originario senso del gioco che, come tutte le forme di
autorappresentazione, esordisce stabilendo le proprie regole, e dunque, in primis, delimita il perimetro di un’area separata che, per sua stessa
natura, si differenzia e contrappone “al mondo degli scopi ordinari”. [5]
Vortici semplici e doppi, spirali, coni, cilindri. Le forme semplici, combinate insieme, danno vita a nuovi segni: i cilindri diventano bozzoli; i
bozzoli sono spaccati; i coni sono vortici con in cima una spirale; le linee, quando non seguono il segno curvo del gesto, diventano a volte
danze di segni nello spazio, sempre diversi e sempre simili. La tecnica utilizzata è tradizionale: carboncino su carta da spolvero. Ciò permette
realizzazioni veloci, quasi furiose, come a voler catturare una presenza che sempre si affaccia e che sempre fugge: giunge in superficie
improvvisa, si dilegua, torna, scompare e ritorna diversa. E in questo gioco tra un permanere e un cambiare, un cambiare che avviene in un
soggetto che permane, si pone lo sforzo di Sisifo dell’artista, è il suo campo di intervento. Nebojsa Bogdanovic ricostruisce nello spazio
espositivo due momenti diversi ma omologhi del suo spazio artistico intimo: da una parte, una sorta di “quadreria” di disegni che affollano,
dal pavimento al soffitto, l’ambiente verticale del corridoio, trasformandolo in “spazio chiuso e turrito”; dall’altra, traspone sul pavimento di
una stanza, che ha casualmente lo stesso perimetro della sua residenza-studio da cui proviene, il grande telo di plastica che ha registrato
l’andirivieni quotidiano di più di un anno di lavoro: stratificato di colori caduti, carte, detriti, coperchi di barattoli, dove si effonde un
odore di trementina. Ricordi di transiti e di stasi, di accelerazioni e rallentamenti, di giri a vuoto e momenti di pienezza, in attesa
dell’assoluto:la pittura, ovvero la superficie intatta della tela che campeggia sulla parete.
I lavori erano già lì, da prima, sparpagliati nei loro studi, poi sul pavimento della galleria in attesa di montaggio, infine installati a dovere nello
spazio espositivo. La provenienza degli artisti varia: Tokio, Londra, Belgrado, Lecce, Firenze. Alcuni di loro si conoscevano già da tempo, altri da
poco. Le loro diversità, al pari delle loro intrinseche consonanze, avevano facilitato più che ostacolato, la condivisione di un'unica tensione,
identificata da Fabio Cresci, nel comune relazionarsi alla superficie. Superficie attraversata e marcata a partire da tracciati, angolazioni e
frequenze vibratorie differenti. La loro reciproca connessione si è presentata quasi da sola. Con facilità. In questo caso, il termine facilità non
è sinonimo di velocità, sia per quanto riguarda l’esecuzione dei singoli lavori, sia per quanto riguarda il prendere forma della mostra nel
suo insieme, quanto piuttosto di affinità. Quali segni fluttuanti, le opere erano state oggetto di incontri avvenuti in tempi, in luoghi e in
circostanze distinte. Poi, non si sa bene quando, ciascun lavoro ha preso il proprio posto e, come elementi chimici attratti per simpatia, si sono
idealmente saldati insieme in un’unica figura. Il compito, infine, è stato di ritrarla così com’era. Facile, appunto.
[1] «A chi si vota all’arte è concesso per un tempo limitato di dedicarsi ai problemi generali, cioè di essere astratto; per un altro tempo limitato
di essere secolare,cioè di rispondere ai problemi dell’arte del proprio tempo. In seguito però deve riuscire ad essere ammesso nel tempio dell’iconografia, pena il cadere nella cultura puritana, da sempre nemica ipocrita dell’iconografia. (…) la forma è contemporanea, ha il tempo del formatore. Iconografia viene da dietro, è l’impulso che spinge il formatore e che il formatore rilancia. » J. De Sanna, Luciano Fabro. Biografia, Udine,1996, p. 50
[2] «Dove c’è esperienza nel senso proprio del termine, determinati contenuti del passato individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con quelli del passato collettivo. I culti coi loro cerimoniali, con le loro feste (di cui forse non si parla mai in Proust), realizzavano di continuo la fusione tra questi due materiali della memoria. Essi provocavano il ricordo in epoche determinate e restavano occasioni e appigli di esso durante tutta la vita. Ricordo volontario e involontario perdono così la loro esclusività reciproca.» W. Benjamin, Alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Torino, 1962, p.93.
[3] W. Benjamin, Alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Torino, 1962, p.93.
[4] M.Milanesi, Il viaggio,la scoperta,la carta. In, Segni e sogni della terra, Novara, 2001.p.131.
[5] H.G. Gadamer, Verità e metodo, Milano,1995, p.139.